Non si scherza: l’omeopatia è una scienza “complessa”. Ma è anche la scienza della “semplicità”. E’ la scienza dell’osservazione del semplice dato, così come esso si presenta, vibrante di tutta la complessa organizzazione energetica che lo fa essere esattamente come è.
Non è facile saper riconoscere la complessità della semplicità. Ma, quando lo si sa fare, il dato semplice, osservabile in sé e per sé, diventa potente, molto potente nei suoi legami con tutti gli altri dati rilevabili nel contesto di una persona malata: la febbre si manifesta in un bambino proprio in quel modo lì, accompagnata dal viso tutto rosso, da una sudorazione abbondante, da pianto persistente, da agitazione. Dati semplici, osservabili con facilità, che costruiscono un quadro complesso, dinamico e interconnesso in tutti i suoi elementi.
Questa connessione non viene compresa e, di fatto, chi è ignorante di omeopatia, dice che è semplicistica, banale, per non dire una buffonata.
L’omeopatia è una buffonata a detta di molti perché considera in semplicità la malattia come qualcosa di osservabile coi sensi e non qualcosa di misterioso, che si sia impossessato dall’esterno del malato e che risieda chissà dove al suo interno.
Sembra un sacrilegio dire che un uomo, davanti a un altro uomo, possa, osservandolo e indagandolo coi suoi propri sensi, comprendere le alterazioni del corpo e dello spirito che definiscono il suo stato di sofferenza e aiutarlo a recuperare una organizzazione più favorevole. Ma così accade, e deve essere così in omeopatia. Questo è quanto insegna inequivocabilmente il suo fondatore, Samuel Hahnemann e quanto sperimentato da 200 anni da validi omeopati e da tutte le persone che ne hanno tratto giovamento.
Attraverso uno studio esteso e minuzioso degli stati di salute e di malattia e con una approfondita conoscenza di quello che i rimedi omeopatici, uno per uno, inducono su individui sani in fase di sperimentazione in doppio cieco, l’omeopata può, basandosi su di una osservazione imparziale dei sintomi mentali emotivi e fisici rilevati, prescrivere l’unico rimedio più adatto per quella persona in quel momento.
L’omeopatia educa all’osservazione imparziale della realtà, così come essa si presenta e come viene riferita da quanti la sperimentano in prima persona, e quindi non solo il malato, ma anche coloro che vivono con lui e non ultimo l’omeopata, che entra in relazione con lui.
L’omeopatia obbliga l’omeopata a diventare sempre più acuto nella percezione: con tutti i suoi sensi, deve essere in grado di percepire il senso dell’organizzazione complessa dell’energia del suo paziente senza trascurare quello che percepisce dentro se stesso, nel momento della relazione.
200 anni fa Samuel Hahnemann parla della malattia come uno stato di organizzazione dell’individuo che è percepito da lui stesso ma anche da chi gli vive vicino e constatato poi dall’omeopata.
Incredibile! 200 anni fa si parlava in un modo acutissimo e preciso di relazione, di osservazione della realtà per come si presenta, organizzata, a livello dello scambio percettivo sensibile tra esseri umani.
Forse che questo approccio di semplice osservazione della realtà, fondato su di una profonda conoscenza della complessità della relazione causale tra i fenomeni, è proprio quello che la medicina occidentale sta cercando?
Che sia una via per trovare la persona nel fegato malato o nella malattia mentale o nella depressione? Possibile che Antonio, Clara o Arturo siano meno importanti del nome della malattia con il quale vengono classificati?
Anche John Locke, filosofo e fisico britannico vissuto nel 1600 disse una verità molto semplice: “le opinioni nuove sono sempre malviste e di solito avversate, solo per il semplice fatto di non essere già comuni” e io aggiungo che, se non si buttassero valanghe di energie a combattersi senza conoscersi veramente, ma solo perché l’altro parla una lingua che non comprendiamo bene, costruiremmo invece di distruggere.
Saluti!
Francesca